Comunque la si guardi, la pandemia da coronavirus avrà impatto enorme sull'industria dell’ospitalità. E senza l’afflusso di capitali di rischio, le misure governative non basteranno ad evitare il collasso.
Uno degli interrogativi a cui gli analisti di mercato stanno cercando di rispondere in questi giorni, è quanto tempo servirà per tornare a una domanda di servizi di alloggio pari ai livelli del 2019, cioè a prima dell’esplosione della pandemia da coronavirus.
Una cosa è certa: al termine del lockdown - il confinamento a casa della popolazione e il blocco della maggior parte delle attività produttive – i viaggi per lavoro o turismo riprenderanno. Gradualmente, molto gradualmente forse, ma riprenderanno. Tuttavia, oltre alle restrizioni, che avranno termine in ordine sparso in Europa e nel mondo, a rallentare la ripresa potrebbero pesare sia i bilanci familiari, sia la paura per la salute, con conseguente cambiamento di abitudini, preferenza per viaggi a corto raggio e la avversione a trasferte non indispensabili.
Tra chi prova a prevedere il futuro c’è STR, società leader nei servizi di benchmarking, analisi dei dati e informazioni strategiche sui mercati mondiali dell’ospitalità. Nel corso di uno dei suoi webinar (2 aprile 2020), in collaborazione con Tourism Economics, che fanno il punto della situazione in Europa, ipotizza un ritorno alla normalità nel 2022.
Se questa previsione dovesse avverarsi, che succederebbe alle migliaia di strutture ricettive del nostro paese?
Come si vede dal grafico, per recuperare i tassi di occupazione degli hotel delle maggiori città europee, sarà necessario ridurre i prezzi (ADR è la tariffa giornaliera media), con un ricavo atteso per camera disponibile, rispetto a quello del 2019, (RevPar) pari al 60% e al 90% rispettivamente nel 2020 e nel 2021.
Le ripercussioni sulle strutture ricettive italiane
Differenti sono gli scenari nei vari contesti operativi e di business.
Alcuni alberghi del turismo estivo potrebbero essere tentati di non aprire nemmeno in questa stagione, per evitare di sostenere dei costi che non sarebbero ripagati; altri potrebbero accogliere a qualsiasi prezzo i turisti per non disperdere il portafoglio di clienti e collaboratori acquisiti nel tempo.
Per gli hotel non stagionali la questione non dovrebbe porsi: restare chiusi al termine del lockdown sarebbe molto simile a una resa definitiva, l’anticamera di una chiusura permanente.
Proviamo a stimare gli effetti sui conti economici degli hotel aperti tutto l’anno sia nelle città d’arte che nei capoluoghi degli affari.
Quelli virtuosi, con EBITDA dell’ultimo anno attorno al 30% del fatturato e risultato lordo vicino al 10%, potrebbero riscontrare perdite di esercizio del 20% e più nel 2020, per ritornare vicino al pareggio nel 2021.
Ad esempio, un hotel di 30 camere a Venezia con fatturato nel 2019 di 1,5 milioni e un utile lordo prima delle tasse di 150K, potrebbe riscontrare perdite per 350K nell’anno in corso.
Questa ipotesi riguarda gli alberghi che vanno bene, quindi che hanno una struttura moderna, magari rinnovata da poco e una sana gestione. Però nel paese ci sono anche alberghi datati, privi di adeguato sistema di gestione, bisognosi di un restyling, se non di ristrutturazioni radicali. Per questi, sembra realistico ipotizzare per quest’anno perdite anche di molto superiori al 30% del fatturato rispetto al 2019, e perdite del 10% nel 2021.
Siamo alla resa dei conti. Chi non ha riserve di liquidità e non riesce ad ottenerla sarà obbligato a cessare l’attività.
Le risposte alla crisi
Da Roma arrivano segnali forti. Il governo ha preparato il “decreto liquidità”, una misura di soccorso che si somma alle iniziative locali o promosse da consorzi di garanzia assieme alle associazioni. Ma tutto ciò potrebbe non bastare. Stiamo parlando di scorciatoie per ottenere denaro a credito dalle banche, a interessi zero o quasi, con garanzie prestate dallo stato.
Non è manna dal cielo. Si tratta della possibilità di contrarre nuovi debiti, che inevitabilmente si ripercuoteranno sui bilanci delle società, e non è nemmeno certo possano fornire liquidità sufficiente a garantire la continuità d’esercizio nel prossimo biennio, ovvero la copertura di fabbisogni per effettuare investimenti.
Per evitare il collasso serviranno risorse finanziarie fresche, capitali propri, non di terzi.
L’ideale sono i finanziamenti interni con risorse fornite alle imprese direttamente dai proprietari o dai soci. Spesso questo non è possibile, lo sappiamo. Ha senso, dunque, pensare all’apertura del capitale a soci esterni, facendo ricorso non tanto a fondi di private equity (che tra l’altro disdegnano le piccole imprese) quanto a investitori privati, famiglie facoltose o imprenditori di successo anche operanti in altri settori.
E’ necessario un salto culturale, una disponibilità che magari non c’è mai stata, anche a pensare in termini di sviluppo competitivo. E’ necessario alzare lo sguardo e cercare le persone che credono ancora nel turismo e sono disposte a scommettere una fetta del proprio patrimonio per rilanciare le eccellenze dell’ospitalità italiana. Persone che vanno senz'altro incontrate, con ottimismo e con voglia di ricominciare.